Aprile 1975: la caduta di Saigon

di John Pilger

Trent'anni fa, l'ultimo giorno di una delle guerre più lunghe del secoloil in Vietnam. Il giorno del caos e dell’umorismo nero, della tristezza e della liberazione.


Saigon, aprile 1975. All’alba ero già sveglio, steso sotto il materasso sulle mattonelle del pavimento, e sbirciavo il mio letto addossato alla portafinestra. Doveva servire a coprirmi dai pezzi di vetro che volavano; ma se l’hotel fosse stato attaccato con i razzi mi sarebbe sicuramente caduto addosso. Morto schiacciato da un letto: avrebbe avuto quasi senso in quell’ultimo atto della più lunga farsa tragicomica: una guerra sempre non necessaria e spesso atroce che aveva tolto la vita a tre milioni di persone, lasciando pietrificata la loro terra, che un tempo era stata rigogliosa.

La campagna molto attesa dei legatari di Ho Chi Min per riunificare il Vietnam era finalmentecominciata, a più di 20 anni dalla “temporanea” divisione imposta a Ginevra. Il giorno di Capodanno del 1975 l’Esercito Popolare del Vietnam (PAVN) aveva circondato la capitale della provincia di Phuoc Binh, a 75 miglia da Saigon; una settimana dopo avevano preso la città.

Quang Tri, a sud della zona demilitarizzata, e Phan Rang hanno subito la stessa sorte, poi Bat Me Thout, Hue, Danang e Qui Nhnon in rapida successione e con poco spargimento di sangue. Danang, precedentemente la più grande base militare del mondo, è stata presa con una dozzina di cellule del Fronte per la Liberazione del Vietnam (l’NLF, conosciuto come vietcong dagli americani) che sventolavano fazzoletti bianchi dal retro di un camion. La fotografia della United Press di un americano che colpiva un “alleato” del vietnam del sud dritto in faccia, mentre il vietnamita cercava di salire a bordo dell’ultimo volo americano da Nha Trang a Saigon, era significativa di ciò che era successo prima.

Entro metà aprile la fine era già in vista quando si era aperta la battaglia per Xuan Loc a 30 miglia a nord-ovest di Saigon, che era già circondata da ben 15 divisioni del PAVN armati di artiglieria e missili termici. Il 20 aprile, Xuan Loc è stata presa dal PAVN. Restava solo Saigon.

Tra i gruppi di rifugiati che si allontanavano dal combattimento c’erano truppe amareggiate dell’esercito del regime spalleggiato dagli Usa, il presidente e comandante in capo del quale, il generale Thieu, aveva ammesso la sconfitta scappando a Taiwan con una fortuna in oro. Il 27 aprile il generale Duong Van (“Grande”) Minh è stato eletto presidente dall’Assemblea Nazionale, col compito di trovare una via per la pace. Fu il “Grande” Minh che, nel 1963, a rovesciare il dittatore Ngo Dinh Diem e a cercare, con i colleghi ufficiali, di negoziare una sistemazione di pace con l’NLF.

Quando gli americani sono venuti a conoscenza di questo lo hanno sollevato dall'incarico, e la guerra è andata avanti.

Erano le otto; ho corso attraverso Lam Som Square per prendere il caffè di cui avevo urgente bisogno. Saigon era stata sotto l’attacco dei missili per due notti. Uno di questi aveva creato uno squarcio di un paio di km tra le piccole case stipate di gente a Cholon, il quartiere cinese, e la tempesta di fuoco che era seguita aveva distrutto tutto. C’erano delle persone che stavano immobili, come in un quadro, a guardare dei pali di ferro accartocciati che erano tutto ciò che restava delle loro case. C’erano alcuni reporter; i missili di ieri erano una notizia, i primi a cadere su Saigon in un decennio; quelli di oggi già non lo erano più. Un fotografo francese incespicava tra i pezzi di metallo fuso, singhiozzando; mi ha preso per un braccio e mi ha trascinato verso un mucchio di cenere.

Vicino c’era una bambina, di circa cinque anni, ancora viva. La pelle del suo petto era aperta come una pagina; le braccia erano sventrate e le mani immobili di fronte a lei, una girata in fuori e l’altra in dentro. Il viso era ancora riconoscibile: aveva guance paffute e occhi marroni, anche se aveva la bocca bruciata e le labbra non c’erano più. Un poliziotto stava portando via la madre. Un boy scout, con una barella della Croce Rossa, parlottava in mezzo al metallo, faceva smorfie e si copriva la faccia. Il fotografo francese e io ci siamo inginocchiati vicino a lei e abbiamo cercato di sollevarle la testa, ma i capelli erano attaccati al ferro da un mortaio che era diventato cera per via del calore. Abbiamo aspettato mezz’ora, imprigionati in questa specie di incubo, incantati da una faccetta, tentando di darle dell’acqua, finché non è arrivato un barelliere.

In seguito agli attacchi, l’ambasciatore americano, Graham Martin, è apparso alla televisione di Saigon, giurando che gli Stati Uniti non avrebbero lasciato il Vietnam. Ha detto: “Io, l’ambasciatore americano, non ho intenzione di fuggire durante la notte. Chiunque di voi può venire a casa mia e constatare da solo che non sto facendo le valigie. Vi do la mia parola”. L’ultimo proconsole americano sul continente asiatico, Martin, era un uomo irascibile, riservato e dalla forte volontà. Era anche molto malato; aveva la pelle scavata e ricoperta di macchie grigie per via dei lunghi mesi di polmonite; i suoi discorsi erano pesanti e frequentemente erano resi più confusi dalle medicine che prendeva. Era un fumatore incallito e le conversazioni con lui venivano spesso interrotte da lunghi attacchi di tosse.

Descrivere Graham Martin come un falco vorrebbe dire attribuire a quell’animale delle qualità di ferocia che non ha. Per settimane aveva detto a Washington che il Vietnam del Sud sarebbe sopravvissuto con un “anello di ferro” intorno a Saigon, che doveva consistente in voli di B-52 a ripetizione. Ma non poteva ignorare completamente ciò che vedeva; sapeva che era compito suo, e soltanto suo, mettere fine a un impero che un tempo vantava due terzi dell’Indo-Cina, per il quale anche suo figlio era morto, nove anni prima.

Nell’Ambasciata americana un albero, uno dei tanti imponenti tamarindi piantati dai francesi un secolo prima, dominava i prati e il giardino fuori dall’ingresso principale. L’unico altro spazio aperto sufficiente per l’atterraggio di un elicottero aveva una piscina nel mezzo e la pista sul tetto dell’ambasciata era adatta solo per i piccoli elicotteri Huey. Se fosse stato chiamato un elicottero da evacuazione solo i Chinook dei marines e i Jolly Green Giant sarebbero stati in grado di portare un grande numero di persone fino alla Settima Flotta, a 30 miglia a largo, nel giro di una giornata. Quell’albero è stato l’ultima presa di posizione di Graham Martin. Aveva detto al suo staff che se l’albero fosse stato abbattuto, anche il prestigio dell’America sarebbe caduto insieme a esso.

Tom Polgar era il capo della stazione della CIA. Al contrario di molti suoi predecessori, era stranamente ben informato ed era risaputamente disperato per la cocciutaggine dell’Ambasciatore. Quando Thieu si chiuse per tre giorni e mezzo nel bunker sotto al palazzo presidenziale, rifiutando di dimettersi e anche di rispondere a qualunque telefonata, fu Polgar, insieme all’ambasciatore francese Jean-Marie Merrillon, colui che riuscì a convincere Martin a intervenire.

Per Martin la caduta del presidente Thieu era diventata come il taglio dell’albero dell’ambasciata: una questione di orgoglio e “faccia”, per se stesso e per l’America. Il governo degli Stati Uniti si era impegnato solennemente con Thieu e l’Ambasciatore diceva spesso che il suo stesso figlio era morto perché il “Vietnam del Sud” di Thieu potesse essere “libero”.

Il 28 aprile l’NLF ha alzato una bandiera sul ponte di Newport, a tre miglia dal centro della città. I monsoni erano arrivati presto e in quel momento Saigon si trovava sotto un cielo plumbeo di nuvole; oltre l’aeroporto si vedevano lunghe e arcuate catene di fulmini e i tuoni arrivavano a piccole salve mentre il presidente Minh si preparava a rivolgersi a ciò che restava della sua “repubblica”. Stava in piedi in fondo alla grande sala nel palazzo presidenziale, addobbata pesantemente con candelabri e broccato dorato, e parlava esitando, come se stesse innalzando una preghiera senza speranza. Parlava dei “nostri soldati che combattono con vigore” e quando invocò il cessate il fuoco e i negoziati sembrava che si trattasse soltanto di un ripensamento. Quando ebbe finito di parlare uno scroscio di applausi ricoprì le sue ultime parole: la guerra finiva in una sottile atmosfera di teatralità.

Ho camminato velocemente lungo la Tu Do, la strada principale della città, mentre i fulmini iniziavano a spostarsi verso il centro. Alcuni negozi erano rimasti chiusi fin dal giorno prima e i loro proprietari erano stati evacuati verso il bowling e la palestra a Dodge City, il nome in codice del vecchio commando americano all’aeroporto Tan Son Nhut, dove avevano pagato profumatamente un posto in fila. Il sarto indiano al numero 24 della Tu Do, “Austin’s Fine Clothes” stava contando in suoi dollari con la faccia imbronciata, mentre malediceva la radio che non prendeva le notizie del BBC World Service. Conoscevo il sarto della Austin da molto tempo e il nostro rapporto era sempre stato fatta di sussurri e comici gesti furtivi, che comprendevano da una parte il passaggio di qualche banconota verde che sarebbe stata tastata, afferrata, scrutata, messa contro luce, e dall’altra la riscossione di un sacchetto di plastica pieno del miglior denaro inglese vietnamita (il maggiore prodotto di esportazione britannico nel Vietnam meridionale erano le banconote).

Un tuono ha pietrificato la città mentre il sarto contava i suo soldi; aveva almeno 5.000 dollari in quel cassetto, che aveva preso quel giorno e il giorno prima, e il suo passaporto indiano sporgeva fuori dalla tasca della camicia. “I comunisti rispettano i passaporti”, diceva toccando il suo, senza sapere cosa rispettavano. Diceva che Saigon non sarebbe caduta per almeno un mese, cosa che ha provocato un’esplosione di risate da parte del suo assistente vietnamita che ronzava dietro a una tenda con la sua macchina da cucire.

I tuoni facevano un nuovo rumore in quel momento, secco e metallico. Era una raffica di spari. Sembrava che la città stesse esplodendo sotto armi di ogni tipo: armi di piccolo calibro, mortai, batterie antiaeree. “Credo che ci stiano bombardando”, disse il sarto, che si era distratto dai suoi conti solo per alzare il volume della radio, sintonizzata su L’Ora delle Vecchie Glorie della Voce d’America. Per la mezz’ora seguente il negozio sembrava essere sotto tiro e io mi sono curato di mettere due muri fra me e la strada. Il sarto, comunque, è rimasto alla sua postazione a contare dollari mentre la Voce d’America suonava “Cherry Pink and Apple Blossom White”, appena percettibile sopra gli spari. E’ una canzone profondamente sciocca , ma mi sono ritrovato a cantare insieme al sarto e probabilmente non ne dimenticherò mai le parole. Nell’angolo opposto, come un uccello ferito, un’anziana donna vietnamita si aggrappava al muro, piangendo e pregando. Sul pavimento di fronte a lei c’erano un bastoncino d’incenso e una scatola di fiammiferi; non riusciva ad accendere i fiammiferi perché tutto il suo corpo tremava per la paura. Dopo numerosi tentativi sono riuscito ad accenderli per lei, rendendomi conto soltanto in quel momento di quanto fosse profonda anche la mia paura.

Il forte rumore, anche quello dei tuoni, si era fermato e si sentiva solo lo scoppiettio del fuoco di piccole armi. “Grazie ai signori che ci hanno bombardato” ha detto il sarto, “l’ammontare è appena salito di mille piastre”. Poi ha aperto le serrande, ha guardato fuori e ha detto “Ok, correte!”.

Sembrava che tutta Saigon stesse correndo, in preda agli spasmi di un silenzioso panico controllato. Anche le mie gambe, che pure si stavano sciogliendo, correvano come non avevano mai fatto, ricevendo nuova vita da una scarica di spari fuori dal Bo Da caffè. Un poliziotto, piegato sulle ginocchia, stava sparando a ventaglio sull’altro lato della strada, abbattendo o facendo cadere la gente, ma nessuno gridava. Una barista del Miramar Hotel che portava degli zatteroni ai piedi, è inciampata nel marciapiede sbucciandosi gravemente le gambe e la guancia. E’ rimasta immobile tenendosi la borsetta dietro la testa. All’angolo opposto, di fronte al Caravelle Hotel, orribili quadri con donnine nude, un poliziotto sparava nel cielo con il suo fucile M-16. C’era un uomo disteso accanto a lui, con la bicicletta che gli si era deformata attorno.

Saigon stava “cadendo” davanti ai nostri occhi: la Saigon creata, ingrassata e nutrita endovena dagli Stati Uniti, e poi dichiarata un malato terminale; capitale dell’unica società consumistica al mondo che non produceva nulla; quartier generale della quarta potenza militare del mondo, l’ARVN, i cui soldati stavano ormai disertando al ritmo di mille al giorno; centro di un impero che, al contrario del precedente francese che era arrivato per depredare, non si aspettava niente dai proprio sottoposti, né gomma, né riso, né tesori (non c’era petrolio), solo che accettassero i suoi “interessi strategici” e fossero grati per le sue manifestazioni asiatiche: la Coca-Cola e il Napalm.

All’una di notte, Graham Martin aveva indetto una riunione degli ufficiali più importanti dell’ambasciata per annunciare che aveva parlato con Henry Kissinger, il quale gli aveva detto che l’Ambasciatore sovietico a Washington, Anatoly Dobryin, aveva promesso di passare il suo (di Kissinger) messaggio a Hanoi, per chiedere un negoziato con il governo del presidente Minh. Martin diceva che Kissinger era fiducioso che i russi sarebbero riusciti organizzare la cosa. Ha dichiarato che voleva che le evacuazioni tramite aerei ad ala fissa continuassero quanto più a lungo possibile, forse per 24 ore. Era poco dopo le quattro del mattino quando batterie di missili hanno iniziato a cadere sull’aeroporto Tan Son Nhut, seguite da un fuoco di fila di artiglieria pesante. L’attesa era finita: la battaglia di Saigon era cominciata. Il sole che è sorto quel giorno era come un fondale rosso sbrindellato dai proiettili traccianti.

Un elicottero con armamento pesante è esploso ed è caduto lentamente, mentre le sue luci brillavano ancora. A est, nelle periferie, c’era il fuoco dei mortai, che significava che l’NLF stesso si trovava a Saigon, e si muoveva in linea quasi continua verso l’ambasciata. Alle sei l’incontro tra Martin e i suoi ufficiali era diventata, come ha detto uno dei partecipanti, “un disastro”. Tutti, eccetto Martin, erano d’accordo sul fatto che bisognava iniziare immediatamente l’evacuazione. Martin diceva di no, che non sarebbe “scappato”, e ha annunciato nell’orrore generale che si voleva recare a Tan Son Nhut per valutare personalmente la situazione. C’era poco più di un sospetto nello staff dell’ambasciata che l’ultimo proconsole dell’impero avesse in mente di bruciare insieme a Roma. Quando l’incontro è finito nella confusione Polgar ha ordinato di tagliare il grande tamarindo.

I “tagliatori” riuniti assomigliavano a degli uomini della Marlboro ingrassati. Erano gli uomini che avrebbero abbattuto il grande tamarindo; un gruppo considerevole di ufficiali della CIA, ex appartenenti alle Forze Speciali (i Berretti Verdi) e un assortimento di ex soldati di due compagnie con base in California a proteggere l’ambasciata. Portavano delle armi che avrebbero fatto la felicità dei collezionisti, tra cui adornate armi automatiche e pistole obsolete, e diversi coltelli.

Comunque condividevano una caratteristica: camminavano con una spavalderia che faceva molto cowboy, con le gambe leggermente piegate, mano destra libera lungo il fianco, con le dita piegate in dentro, che di tanto in tanto tocca la fondina. Sono stati provvisti di asce e seghe potenti e le segretarie dell’ambasciata hanno portato loro birre e panini. Stavano tagliando l’albero dell’Ambasciatore senza il consenso dell’ambasciatore.

Nello stesso tempo una squadra di automobili e camion era entrata nel mercato fuori dal Giardino Botanico e Zoo, e aveva liberato rapidamente il suo carico: bistecche surgelate, pezzi di maiale, succo d’arancia, grandi barattoli di sottaceti e ciliegie al maraschino, cartoni di fagioli in scatola e burro di noccioline Chunkie, torte di Sara Lee, birra Budweiser, Seven-Up, gomme da masticare Wrigley, sigari con la punta di plastica Have-a-Tampa, e molto di più, il tutto depredato dal commissariato di Saigon, che era stato abbandonato poco dopo che un’unità del genio dell’NLF aveva iniziato a passeggiare in fila indiana attraverso la porta sul retro. Per gli abitanti di Saigon rubare dai loro maestri e padroni era diventato quasi un obbligo culturale e si respirava un’aria carnevalesca e molta allegria mentre le tenerissime bistecche con l’osso venivano vendute a pochi centesimi. Un pick-up ha scaricato una lavastoviglie e una ghiacciaia è stata venduta e portata via in fretta in un boschetto; la lavastoviglie era della Blue Swan e sulla scatola c’era il motto della marca: “Solo il meglio per i nostri clienti”. E’ stata tirata fuori dalla scatola e lasciata sulla strada. Due ore dopo era ancora lì, invenduta e privata delle parti vitali, un monumento abbandonato dell’industria del consumo in Vietnam.

Saigon si trovava ora sotto un coprifuoco di 24 ore, ma c’era ancora gente per strada e alcuni erano soldati della 18 esima Divisione dell’ARVN che avevano combattuto a Xuan Loc, sulla Highway Uno. Li avevano aspettati e avevamo atteso i primi segni della loro rabbia appena era stato chiaro che gli americani si preparavano ad abbandonarli al loro destino. Quella mattina, quando sono apparsi per la prima volta nel centro hanno sfogato la loro frustrazione semplicemente mirando agli stranieri, rapinandoli o facendoli saltare in aria.

Sono tornato al Caravelle Hotel dove dovevo incontrare Sandy Gall dell’Independent Television News (ITN); lui e io eravamo i “custodi dell’evacuazione” per la TCN Press, che significa Third Country Nationals (Cittadini del Terzo Paese), cioè tutti coloro che non erano americani o vietnamiti. Per qualche giorno Gall e io ci siamo impegnati nel compito estremamente eccentrico di provare a organizzare i rappresentanti della stampa britannica, canadese, italiana, tedesca, spagnola, argentina, brasiliana, danese e giapponese che volessero essere evacuati. L’ambasciata americana aveva distribuito un libretto di 15 pagine chiamato SAFE, l’abbreviazione per “Istruzioni e Consigli Standard per i Civili in Caso di Emergenza”. Il libretto includeva una mappa di Saigon con evidenziati “i punti di raccolta dove potrete salire a bordo di un elicottero”. C’era un inserto che diceva: Fare attenzione al segnale di evacuazione; non divulgare; quando l’evacuazione viene ordinata il codice sarà letto alla Radio delle Forze Americane. Il codice è: LA TEMPERATURA A SAIGON E’ DI 112 GRADI E AUMENTERÀ’. QUESTO SARA’ SEGUITO DALLA TRASMISSIONE DI I’M DREAMING OF A WHITE CHRISTMAS”.

I giornalisti giapponesi erano preoccupati perché temevano di non riconoscere la canzone e chiedevano se qualcuno poteva cantargliela. Al Caravelle Gall e io avevano nominato dei guardiani a ogni piano che, al primo segno di neve natalizia a Saigon, avevano il compito di assicurarsi che tutti i giornalisti infermi, sordi o addormentati, costretto in bagno o in un corridoio, non sarebbe stato lasciato indietro. C’era più di un briciolo di interesse personale in questa organizzazione; avevo, e ho, una grande angoscia, che mi ha lasciato più tardi, per praticamente qualunque evento importante della mia vita.

Due aerei Hercules C-130 della Base Aerea di Clark nelle Filippine volavano sopra Tan Son Nhut, con l’ordine di non atterrare. Gli esploratori inviati al perimetro dell’aeroporto hanno riportato che due plotoni di fanteria del PAVN avevano fornito rinforzi agli sminatori nel cimitero a un miglio di distanza; un pilota sud-vietnamita era atterrato col suo caccia F-5 sulla rampa e lo aveva abbandonato col motore acceso; un carico di soldati dentro una jeep dell’ARVN stava speronando uno dei loro C-130 mentre cercava di decollare. “Sulla rampa ci sono tremila civili in preda al panico” ha detto il Generale Homer Smith sull’alta frequenza, “La situazione è fuori controllo”.

Graham Martin, solo nel suo ufficio, guardava l’albero cadere mentre il capo della stazione della CIA gridava “Largo!”. Quando Kissinger lo ha chiamato poco dopo, in conformità col desiderio del presidente Ford che l’ambasciatore americano prendesse la decisione definitiva sull’evacuazione, ha ascoltato pazientemente un Graham Martin esausto e sofferente. Alle 10:43 del mattino è stato dato l’ordine di “partire con l’Opzione Quattro” (l’elicottero per l’evacuazione; le altre opzioni erano la partenza via mare e via aria). Ma Martin è rimasto risoluto nella convinzione che c’era “ancora tempo” per negoziare una “soluzione onorevole”.

Il Caravelle si è svuotato senza che la Guardia Congiunta non Ufficiale del TCN ne fosse al corrente. Nessuno mi ha detto niente. Bing Crosby non ha canticchiato alla mia radio. Quando sono arrivato le stanze sembravano Marie Celeste, con vestiti, fogli, spazzolini abbandonati. Sono corso alla mia stanza, ho raccolto la macchina da scrivere, la radio e gli appunti e li ho stipati in una piccola borsa; il resto l’ho lasciato. Due camerieri sono arrivati e mi hanno osservato mentre impacchettavo la mia roba in quel modo affannoso, confuso e quasi atterrito. Uno di loro mi ha chiesto “Sta partendo, signore?” Ho risposto di sì, per modo di dire. “Ma i suoi abiti in lavanderia non saranno pronti fino a stasera, signore”. Ho cercato di non guardarlo. “per favore...li tenga...e anche tutto il resto”. Gli ho messo in mano un mucchietto di banconote, sapendo che stavo comprando la loro difesa di fronte alla mia uscita indelicata. Dopo nove anni, che modo di andarsene, ma il fatto che volevo partire era fuori dubbio; ne avevo abbastanza della guerra.

Fuori Lam Son Square era deserta, c’erano solo alcuni soldati dell’ ARVN stravaccati nei portoni e sul marciapiede. Uno do loro ha camminato animatamente sulla Tu Do, gridando verso di me; era ubriaco. Ha tirato il suo revolver fuori dalla fondina, lo ha appoggiato su un braccio malfermo, ha preso la mira e ha sparato. Il proiettile mi è passato sopra la testa mentre correvo. Una folla di gente si pressava al cancello dell’ambasciata americana; alcuni erano solo dei curiosi che erano venuti ad assistere alla Dunkirk aerea dell’America, ma ce n’erano tanti che si aggrappavano alle sbarre supplicando i marines di lasciarli entrare e sventolando lettere e documenti sigillati con la cera da ufficiali americani. Un uomo anziano aveva la lettera di un sergente che molto tempo prima aveva un bar al club degli ufficiali dell’Aviazione a Peiku.

L’uomo lavorava come lavapiatti e la nota del sergente, datata 5 giugno 1967, diceva “Il signor Nha, portatore di questa lettera, he servito fedelmente la causa della libertà della Repubblica in Vietnam”. Il signor Nha ha mostrato anche una stella giocattolo da Texas ranger, che gli aveva regalato uno dei piloti a Peiku. Sventolava la lettera e la stella giocattolo davanti al marine di guardia, che gridava alla folla “Ora per favore niente panico...per favore!”. Per tutto il tempo che riuscivano a ricordare, queste persone che avevano lavorato per gli americani, avevano sentito che dovevano avere paura dei comunisti; ora si diceva loro, mentre i comunisti erano arrivati nei loro giardini, che non dovevano lasciarsi prendere dal panico.

Il signor Nha ha provato a infilarsi nell’apertura del cancello ed è stato buttato a terra dallo stesso marine che stava dicendo di non avere paura. Si è alzato, ci ha riprovato ed è stato afferrato da un altro marine, che lo ha spinto fuori col calcio del fucile e ha lanciato la stella da Texas ranger oltre le teste della folla.

Dentro il recinto dell’ambasciata i marines e i cowboy stavano intorno al ceppo del grande albero di tamarindo. “Ok, ditemi cosa dobbiamo fare con quel bastardo irremovibile?” ha detto uno dei cowboy nel walkie-talkie. “Non te la prendere Jed”, è stata la risposta che si è sentita, “adesso tu e i ragazzi dovete tagliarlo ancora di mezzo metro, così si sarà abbastanza spazio per le pale. E Jed, fai togliere tutti quei rami tagliati, o stai sicuro che verranno risucchiati nei motori”. Quindi i marines e i cowboy hanno continuato a far oscillare le asce contro il ceppo, ma con crescente frustrazione e incompetenza tanto che i loro colpi sono diventati un intrattenimento per tutti sia dentro che fuori dal cancello, e per le guardie francesi che sogghignavano sul muro alto dell’ambasciata francese alla porta accanto.

Nella lingua vietnamita, che in generale è dedita alla poesia e all’ironia, c’è il detto che “solo quando le case bruciano riesci a vedere i ratti”. Ed ecco il dr Phan Quang Dan, ex vice primo ministro e ministro responsabile delle politiche sociali e l’insediamento dei rifugiati, un uomo visto da Washington e dall’ambasciatore Martin come l’incarnazione del vero spirito nazionalista del Vietnam del Sud. Un anticomunista ossessivo che faceva continuamente discorsi per esortare i propri concittadini ad alzarsi e combattere, il dr Phan Quang Dan era accompagnato dalla sua paffuta moglie, che sudava sotto un cappotto di pelliccia, e da un plotone di portaborse, che non lasciavano mai la presa su quelle borse. C’era anche la “bella gente” di Saigon, compresi dei giovani di età da militare, i cui ricchi genitori hanno pagato grosse tangenti per tenerli lontani dall’esercito. Nonostante fossero negli elenchi di soldati qualche unità, non si sono mai presentati a rapporto e i loro ufficiali in comando più che probabilmente hanno intascato i loro stipendi. Erano chiamati i “soldati fantasma” e continuavano a fare la bella vita a Saigon: nei caffè, sulle loro Honda, al bordo della piscina del Circolo Sportivo, mentre i figli dei poveri combattevano e morivano a Quang Tri, An Loc e tutti gli altri luoghi.

“Guardate, sono io...fatemi entrare, per favore...grazie mille...ciao, sono io!”. La voce acuta da dietro la folla fuori dal cancello apparteneva al Generale di corpo d’armata Dang Van Quang, che era visto dai suoi concittadini e da molti americani come uno dei più grandi e ricchi affaristi nel Vietnam del Sud. La guardia marine aveva una lista di persone che poteva far entrare, che includeva il generale Quang. Con molta cura la guardia ha aiutato il Generale, che era molto grasso a passare oltre le sbarre di più di quattro metri e poi ha recuperato le tre valigie Samsonite. Quang era così sollevato di essere entrato che se n’è andato lasciando il figlio di 20 anni a divincolarsi disperatamente nella folla. Due pacchetti di dollari stavano per cadere dal taschino della giacca del Generale.

Quando qualcuno gli ha fatto notare la cosa li ha respinti dentro e ha riso. Tra gli americani il generale Quang era conosciuto come “Risolino” e “Generale Grasso”; tra loro, nel recinto dell’ambasciata, c’era uno spirito di festa. Si sedevano sul prato lungo la piscina con champagne in secchielli da ghiaccio, rubati dal ristorante dell’ambasciata, e facevano baldoria; un uomo con un cappello da cowboy ha spruzzato la schiuma su un’altro e due meccanici dell’aereo, Frank e Elmer, cantavano allegramente. Hanno continuato a ripetere ancora e ancora la canzone “The Camp Town Races”:

Torniamo a casa sugli uccelli della libertà
Doo dah, doo dah;
Non torniamo dentro buste di plastica
Oh doo dah day.

“Questo è il punto dove sono arrivato dopo dieci anni”, ha detto Warren Parker quasi in lacrime. “Vede quell'uomo laggiù? E’ un’ufficiale della Polizia Nazionale...è una vera tortura”. Warren Parker era stato, fino a quella mattina, Console Degli Stati Uniti a My Tho, nel Delta, dove lo avevo incontrato una settimana prima. Era un uomo silenzioso, quasi timido, e aveva passato gli ultimi dieci anni in Vietnam cercando di “consigliare” i vietnamiti e stupendosi di quanti di loro non volevano i suoi consigli. Ci siamo fatti strada nel ristorante accanto alla piscina, passando accanto a un uomo che diceva “Niente Vietnamiti qui, niente Vietnamiti”, dove abbiamo sgraffignato una bottiglia fredda di vino Taylor di New York, rosa e dolce. I bicchieri erano tutti andati, quindi abbiamo bevuto dalla bottiglia. “Le dirò una cosa”, mi ha detto, nel suo leggero accento della Georgia, “se ho mai avuto un momento di verità nella mia vita è oggi. In tutti questi anni sono stato qui, a lavorare per il mio paese e per questo paese, e oggi tutto quello che vedo è che abbiamo separato la brava gente dalla feccia, ma ci siamo tenuti la feccia”.

Alle 15:15 Graham Martin è uscito a grandi passi dall’ascensore dell’ambasciata, ha attraversato l’ingresso ed è arrivato al recinto. I grandi elicotteri, i Jolly Green Giants, dovevano ancora arrivare e il ceppo del tamarindo non si era ancora accorciato di molto, nonostante il furioso lavoro dei marines e dei cowboy. La Cadillac di Martin lo stava aspettando e, mentre lo staff lo guardava shoccato, la macchina lo ha portato verso il cancello che era sotto assedio. Il marine al cancello non riusciva a credere ai suoi occhi. La Cadillac si è fermata, il soldato ha alzato le armi e la macchina ha fatto retromarcia. L’Ambasciatore è uscito e si è precipitato oltre il ceppo e i cowboy. “Sto tornando alla mia residenza ancora una volta”, ha esclamato. “Camminerò liberamente in questa città. Lascerò il Vietnam quando il Presidente mi dirà di farlo”. Ha lasciato l’ambasciata da un’entrata laterale, si è fatto strada tra la folla e ha percorso a piedi i quattro isolati che conducevano a casa sua. Un’ora e mezza dopo è tornato con il suo barboncino, Nitnoy, e il suo domestico vietnamita.

Mentre il primo elicottero Chinook compiva un atterraggio precario, le pale si sono impigliate in un albero e i rami che sbattevano tra loro facevano un rumore simile agli spari. “A terra! A terra!” gridava un caporale, ubriaco di metedrina, alla fila di persone rannicchiata contro il muro, in attesa del proprio turno per essere evacuati, finché un uomo non è arrivato a calmarlo. La capacità dell’elicottero era di 50 persone, ma è decollato portandone 70. La bravura del pilota toglieva il fiato, mentre saliva verticalmente di 60 metri, coi proiettili che colpivano le pale e i documenti dell’ambasciata che volavano nella corrente d’aria. Tuttavia non tutti i documenti sono andati distrutti e alcuni sono stati lasciati nel recinto in sacchetti di plastica. Io ne ho uno. Porta la data del 25 maggio 1969 e dice “Top Secret...promemoria da John Paul Vann, contro l’insurrezione...900 case nella provincia di Chau Doe sono state distrutte da attacchi aerei americani senza prove di alcun nemico ucciso. La distruzione di questo villaggio da parte del fuoco amico americano non sarà mai perdonata né dimenticata dalla popolazione sopravvissuta...”

Dall’inceneritore sul tetto dell’ambasciata piovevano soldi. Non riuscivo a credere ai miei occhi. Il reale e l’irreale si erano sovrapposti. Biglietti da 20, 50 e 100 dollari cadevano dal cielo. La maggior parte sono finiti inceneriti, ma molti no. I Vietnamiti che aspettavano intorno alla piscina erano stupefatti; ex ministri e generali e torturatori si accapigliavano per ottenere quella liquidazione pagata dal cielo. Un funzionario dell’ambasciata ha detto che in quel momento stavano bruciando più di cinque milioni di dollari. “Tutte le casseforti sono stato svuotate e richiuse di nuovo”, ha detto

Almeno un migliaio di persone erano ancora nell’ambasciata nell’attesa di essere evacuati, mentre la maggior parte delle celebrità, come “Risolino” Quang, si erano assicurati il primo elicottero; gli altri aspettavano passivamente, come storditi. Nel palazzo stesso la schiuma dello champagne cadeva su lucide scrivanie, mentre molti dello staff dell’ambasciata cercavano di demolire i propri uffici: spaccavamo i refrigeratori, versavano bottiglie di Scotch sui tappeti, spazzando via le foto dai muri. In un ufficio del terzo piano una foto dell’ex presidente Johnson è stata buttata nella carta straccia, mentre una citazione incorniciata di Lawrence d’Arabia è rimasta sul muro. La frase diceva. “Meglio lasciarli fare anche se non perfettamente, che farlo tu perfettamente, perché è il loro paese, la loro guerra, e il tuo tempo è breve”.

Era quasi mezzanotte. Il contorno dell’ambasciata era illuminato dalle luci delle auto, e i Jolly Green Giant ormai caricavano 90 persone alla volta. Martin Garrett, il capo della sicurezza, ha radunato gli ultimi americani che restavano. I vietnamiti hanno iniziato a capire cosa sarebbe successo e un colonnello dei marines è arrivato per rassicurarli che l’ambasciatore Martin sarebbe stato l’ultimo a partire. Ovviamente era una bugia. Erano le 2:30 del mattino del 30 aprile quando Kissinger ha chiamato Martin al telefono e gli ha detto che l’evacuazione doveva terminare alle 3:45. Dopo mezz’ora Martin è apparso con una borsa porta documenti, una valigia e la bandiera a Stelle e Strisce piegata in un sacchetto di carta. E’ salito in silenzio al sesto piano dove lo aspettava un elicottero. “Lady Ace 09 è in aria con un Codice Due”. Il “Codice Due” era quello usato per un ambasciatore americano. Questo annuncio attaccato al circuito significava che l’invasione americana dell’Indo-Cina era finita. Quando l’elicottero ha virato sulla Highway Uno, l’Ambasciatore poteva vedere i fari dei camion dell’Esercito Popolare del Vietnam che aspettavano.

Gli ultimi marines hanno raggiunto il tetto e hanno sparato fumogeni nella tromba delle scale. Sentivano il rumore dei vetri che si rompevano e i tentativi disperati dei loro ex alleati per aprire le casseforti vuote. I marines erano esausti e iniziavano a farsi prendere dal panico; l’ultimo elicottero doveva ancora arrivare e l’alba era già passata da un bel po’. Tre ore più tardi, mentre il sole splendeva su una città in attesa, dei carri armati con i colori dell’NLF sono entrati nel centro di Saigon. Gli equipaggi esultanti non mostravano segni di minaccia e non hanno sparato neanche un colpo. Erano gentili e confusi; uno di loro è saltato giù, ha aperto una mappa sul carro armato e ha chiesto a dei passanti meravigliati “Per favore mi potete indicare il palazzo presidenziale.Non conosciamo Saigon , non siamo venuti per molto tempo”.

I carri armati sono entrati sferragliando in Lam Son Square, lungo la Tu Do, fino alla cattedrale e, dopo essersi fermati per far prendere vento alla bandiera rivoluzionaria che sventolava sulle loro torrette, hanno fatto irruzione nei cancelli decorati del palazzo presidenziale dove il “Grande” Minh e il suo governo stavano aspettando di arrendersi. Nelle strade fuori, c’erano stivali e uniformi che giacevano impilati dove i soldati dell’ARVN se li erano tolti per confondersi con la gente. Non c’è stato nessun “bagno di sangue”, come avevano previsto delle persone che sapevano molto poco sui Vietnamiti.

Con l’espulsione dell’invasore questo straordinario paese era tornato a essere una nazione unica, cosa che era stata già decretata come un diritto dalla conferenza di Ginevra tutti quegli anni sprecati prima. La più lunga guerra del 20 esimo secolo era finita.


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